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Il contratto di lavoro a tempo indeterminato

Il contratto di lavoro a tempo indeterminato è la forma principale di rapporto di lavoro subordinato: il lavoratore svolge un lavoro sotto la guida del datore di lavoro e in cambio di una retribuzione

di Carlo Sala 1 ott 2019 ore 14:28

contratto-tempo-indeterminatoIl contratto di lavoro a tempo indeterminato è la forma principale di rapporto di lavoro subordinato. In tale rapporto il lavoratore svolge un lavoro sotto la guida del datore di lavoro e in cambio di una retribuzione da parte di quest'ultimo.

La legge favorisce questo tipo di contratto di lavoro in 3 modi:

  •  disponendo che, in assenza di diversa indicazione, il rapporto di lavoro subordinato si intenda a tempo indeterminato (articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 368 del 6 settembre 2001);
  •  ponendo vincoli per il ricorso ad altri tipi di contratto di lavoro;
  •  stabilendo la conversione di quei contratti in contratti di lavoro a tempo indeterminato se non sono rispettati i vincoli previsti.

 

La forma del contratto di lavoro a tempo indeterminato

In generale, il contratto di lavoro a tempo indeterminato può essere stipulato in forma sia scritta che orale. Può essere stipulato anche tacitamente, quando un lavoratore svolge un’attività per un’altra persona che accetta tale attività e la retribuisce. La forma scritta è richiesta solo in precisi casi indicati dalla legge o quando si concordano elementi accessori che non rientrano nell’attività lavorativa principale. In ogni caso, il datore di lavoro deve fornire per iscritto al lavoratore le informazioni essenziali sul rapporto di lavoro (anzitutto attività da svolgere e retribuzione prevista).
L’attività lavorativa oggetto del contratto può essere di qualunque tipo, purché sia lecita e possibile (cioè non vietata dalla legge e concretamente realizzabile).

 

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Retribuzione, contributi e regime fiscale del contratto di lavoro a tempo indeterminato

La retribuzione è di norma fissata dal contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) in vigore per il tipo di attività oggetto del contratto tra lavoratore e datore di lavoro. Questi ultimi sono liberi di concordare una retribuzione maggiore, ma non inferiore, a quella prevista dal Ccnl. Ad oggi in Italia non esiste un salario minimo fissato per legge.

Il lavoratore a tempo indeterminato percepisce la retribuzione su base mensile, per un numero di mensilità annue che dipende dal Ccnl (di solito sono 13).

La retribuzione viene corrisposta anche nei periodi di ferie, malattia e indisponibilità coperta dalla legge (ad esempio assenza per maternità) del lavoratore.

Oltre alla retribuzione mensile, il lavoratore percepisce anche i contributi previdenziali. Questi contributi sono versati all’Inps o all’ente di previdenza competente: il loro ammontare e numero complessivo determinerà la pensione del lavoratore. I contributi sono riconosciuti anche, come contributi figurativi, nei casi di assenza per indisponibilità tutelata dalla legge e malattia.

Durante il rapporto di lavoro il lavoratore matura anche una retribuzione posticipata, il cosiddetto trattamento di fine rapporto (Tfr). Entro sei mesi dall’assunzione, il lavoratore deve indicare se vuole lasciare il Tfr all’azienda, che glielo liquiderà al termine del rapporto di lavoro, o affidarlo a un fondo di previdenza complementare. Il lavoratore può sempre chiedere di avere quanto maturato come Tfr anche a rapporto di lavoro ancora in corso.

Il datore di lavoro è sostituto di imposta del lavoratore per il reddito derivante dal contratto di lavoro a tempo indeterminato. Trattiene quindi dalla busta paga e versa al fisco le somme dovute come tasse. Il lavoratore deve comunque presentare al fisco la propria dichiarazione dei redditi per:

  •     attestare che sui suoi redditi da lavoro dipendente sono già state pagate le tasse dovute;
  •     dichiarare eventuali altri redditi oltre a quelli da lavoratore dipendente e pagare le relative tasse.


Il cosiddetto cuneo fiscale è la differenza tra quanto il datore di lavoro dichiara di pagare ogni mese al lavoratore, al lordo del fisco, e quanto effettivamente paga, al netto del fisco.

 

La durata del contratto di lavoro a tempo indeterminato

Il contratto di lavoro a tempo indeterminato, differentemente rispetto al contratto di lavoro a tempo determinato ha durata illimitata. Sia il lavoratore che il datore di lavoro possono però porvi termine.

Il lavoratore è libero di rescindere il contratto, tramite dimissioni, quando vuole. Deve solo darne preavviso al datore di lavoro, con un margine di tempo stabilito dal Ccnl. In caso contrario, il lavoratore deve corrispondere al datore di lavoro un’indennità, tanto maggiore quanto minore è il tempo trascorso tra preavviso e dimissioni. L’obbligo di preavviso non vale se le dimissioni avvengono per giusta causa.

Il datore di lavoro può rescindere il contratto di lavoro a tempo indeterminato, cioè licenziare il lavoratore, soltanto in 3 casi:

  •     per giusta causa;
  •     per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo);
  •     in seguito a procedura di riduzione del personale.


La giusta causa si verifica quando il datore di lavoro (in caso di dimissioni) o il lavoratore (in caso di licenziamento) assume atteggiamenti tali (ad esempio mobbing) che l’unico rimedio efficace è la cessazione del rapporto di lavoro. La giusta causa rappresenta la causa tipica di licenziamento del lavoratore per motivi disciplinari ed in questo caso deve essere contestata al lavoratore tramite procedimento disciplinare che consenta all’interessato di difendersi.

Il giustificato motivo oggettivo ricorre (secondo l’articolo 3 della legge n. 604 del 15 luglio 1966) quando vi sono «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa», in pratica in caso di crisi aziendali. Il giustificato motivo soggettivo ha invece luogo (secondo l’articolo 1 della legge 604/1966) quando il lavoratore non svolge la propria attività con la dovuta diligenza (secondo quanto prescrive il codice civile per tutti i contratti). Ricorre, in sostanza, in caso di scarso rendimento.

Il licenziamento può infine avvenire quando le procedure che consentono messa in mobilità di dipendenti o cassa integrazione, come stabiliscono la legge n. 223 del 23 luglio 1991 e le successive modifiche, non hanno funzionato. L’azienda può effettuare licenziamenti solo dopo aver provato tali procedure e solo se queste non sono bastate a rimetterla in carreggiata.

 

La tutela del lavoro nel contratto di lavoro a tempo indeterminato

Il lavoratore licenziato può ricorrere alla magistratura del lavoro entro e non oltre 60 giorni la comunicazione del licenziamento.

Un licenziamento giudicato invalido dà luogo a conseguenze diverse a seconda che il lavoratore lavori in un’azienda con almeno 15 dipendenti a tempo indeterminato e che la sua assunzione sia avvenuta prima del 7 marzo 2015 o a partire da quel giorno. Nel dettaglio:

  •  il lavoratore di un’azienda con massimo 14 dipendenti a tempo indeterminato può solo avere l’indennizzo del danno (cessato guadagno) causato dal licenziamento;
  •  il lavoratore di un azienda con almeno 15 dipendenti a tempo indeterminato può scegliere tra l’indennizzo del danno e la reintegrazione nel posto di lavoro, purché sia stato assunto prima del 7 marzo 2015. Se sceglie il reintegro, il datore di lavoro dovrà provvedere a tutti gli stipendi e i contributi venuti meno dal momento del licenziamento a quello del reintegro;
  •  il lavoratore di un’azienda con almeno 15 dipendenti a tempo indeterminato assunto dal 7 marzo 2015 in poi potrà avere solo un indennizzo del danno (cessato guadagno) causato dal licenziamento.


Tutti i lavoratori a tempo indeterminato assunti prima del 7 marzo 2015 ricadono sotto il cosiddetto Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 20 maggio 1970); tutti quelli assunti dopo sotto il cosiddetto Jobs Act (legge n. 183 del 10 dicembre 2014). La prima legge prevede che chi sia stato licenziato senza valido motivo possa tornare al suo vecchio posto di lavoro (se non sceglie invece l’indennizzo), tranne nel caso in cui lavorasse in un’azienda con massimo 14 dipendenti a tempo indeterminato (in quel caso può solo avere l’indennizzo). Il Jobs Act ha abolito completamente la possibilità di riavere il vecchio posto di lavoro e lasciato solo l’indennizzo. Tale indennizzo, secondo una sentenza della Corte costituzionale del 2018, deve essere stabilito dal giudice del lavoro entro un minimo pari a 6 mensilità della retribuzione del lavoratore e un massimo pari a 36 mensilità.

 

Conclusioni

Il contratto di lavoro a tempo indeterminato continua a offrire garanzie come senza uguali, ma meno di una volta. La principale garanzia, che una volta assunti era estremamente improbabile perdere il posto di lavoro anche se si veniva licenziati, è venuta meno col Jobs Act. Di contro, il fatto che il Jobs Act abbia creato lavoro sopratutto nel triennio 2015-17, quando le assunzioni consentivano ai datori di lavoro di avere sgravi contributivi, sembra dire che l’offerta di lavoro a tempo indeterminato dipende più dal costo che il datore di lavoro deve pagare (il cosiddetto cuneo fiscale) che dalla possibilità di rescindere il contratto.  In quest’ottica misure come il reddito di inclusione e il reddito di cittadinanza funzionano se sono sfruttate dal lavoratore come chances per acquistare nuove capacità e aumentare la propria occupabilità. Non funzionano invece se sono considerate un risarcimento per un diritto negato. Reclamare il lavoro come diritto, infatti, non comporta che qualcun altro debba obbligatoriamente offrire lavoro.

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